THE SCORE

Montreal (Canada). Ha qualche debituccio il maturo scassinatore Nick (Robert De Niro). Ormai prossimo alla pensione ha da poco deciso di ritirarsi per dedicarsi, oltre che alla propria compagna, anche alla gestione del Jazz Club di cui è proprietario.

Pur ingolosito, sulle prime però tentenna alla proposta del vecchio, mastodontico ex socio, Max (Marlon Brando), ricettatore e amico di lunga data: nel caveau del palazzo della dogana è custodito un antico scettro francese d’oro di valore inestimabile visto che è tempestato anche di pietre preziose.

Arraffalo e ti becchi quattro milioni di dollari esentasse.

Se ci provi ancora me ne vado, gli sibila invece la fidanzata hostess Diane (Angela Bassett).
Ma la pesante ipoteca che grava sul Club lo convince definitivamente ad andare fino in fondo, anche perchè convinto dal giovane genio del computer Jack (Edward Norton) che, fingendosi scemo, si è fatto assumere come uomo di fatica sul luogo del delitto.

Avanti con il colpo.

THE SCORE è  un passabile poliziesco a due facce, che ad un primo lento di esasperante lentezza, immerso tra chiacchiere e whisky, ne fa seguire un secondo denso di azione, che tocca il culmine della tensione con la lunga, emozionante scena della rapina.
ANGELA BASSETT
Anche se non bastano un ottimo attore (e discreto regista) come Norton e due divinità del pari di De Niro e Brando per fare un buon film, la presenza dei tre additivi è indispensabili per insaporire un piatto che rischia di essere sciapo e incolore.

Inevitabile lo scontro generazionale e piacevole il sottile, ma neanche tanto, rimando al reale cambio di testimone tra la vecchia generazione d’attori formatasi all’Actor’s Studio e la nuova, qui rappresentata da un sempre più sorprendente Edward Norton che nel caso riesce a dare la paga perfino a Bob De Niro.

Nel cast anche la grintosa pantera Angela Bassett.

LA CIOCIARA

Roma, 1943. Vengono giù bombe come se piovesse. La giovane vedova Cesira (Sophia Loren) abbandona su due piedi la bottega e scappa con la figlia tredicenne Rosetta (Eleonora Brown) sui monti della Ciociaria.

Al paesello vive una romantica storia col contadino Michele (Jean-Paul Belmondo), poeta a tempo perso, costretto presto a far da guida a un manipolo di tedeschi in fuga.

Arrivano gli Alleati e le due donne riprendono la via di casa.

Aiuto, bambina mia, scappa: entrambe sono violentate dai marocchini (le famigerate “marocchinate” che tanto dolore hanno lasciato nella terra ciociara nda).

LA CIOCIARA è uno dei più celebri film del duo Vittorio De Sica- Cesare Zavattini da un crudo romanzo (1957) di Alberto Moravia, trasposto con robusto piglio narrativo.

Il quadro terribile degli ultimi mesi di guerra nel Lazio e la storia di una donna che dopo aver duramente lottato contro la carestia e la fame, doveva assistere, a liberazione avvenuta, al dramma della figlia che, violentata dai marocchini, diventava una poco di buono.

Lei stessa, preda del bisogno, arrivava fino a rubare, ma poi il dolore per la morte di una persona cara e, soprattutto, la contemplazione di tutto il dolore rimasto a retaggio della guerra, l’aiutavano, purificandola, a ritrovare le vie dell’onestà.

Oscar per la fiammeggiante e appassionata Sophia Loren, meritato sul campo, che vinse anche il Nastro d’argento 1961.

Fatele fare la popolana, non la principessa: il grande Vittorio De Sica è uno dei pochi che l’aveva capito.

MATRIMONIO ALL'ITALIANA

Napoli, anni quaranta. la ciclonica Filumena Marturano (Sophia Loren) è una giovanissima prostituta e Don Domenico Soriano (Marcello Mastroinanni) è un ricco signorotto. I due si incontrano durante un bombardamento in una casa di tolleranza e l’uomo, intenerito e affascinato, fa di lei la sua colf-concubina per anni.

Il compagno l’ha tolta da una di quelle case , lei glien’è grata, ma ora punta i piedi: devi sposarmi.

Fossi matto, le ribatte l’amante, improvvisamente intiepidito.

Allora l’inviperita donzella un giorno, finge la morte per farsi sposare in extremis. L’altro, spaventato, abbocca. e le concede il sì.

Scoperta la beffa, il neomarito invalida il matrimonio e la donna stupisce nuovamente il consorte estraendo a sorpresa un altro asso nella manica: uno dei miei tre figli è tuo, ma non ti dirò mai quale.

E ora all’altare. Anche perchè mentre cerca di scoprirlo, Domenico si accorge di essere, in verità, padre felice di tutti e tre i figli.

Voluto dal produttore Carlo Ponti per rinnovare il successo dell’accoppiata Loren-Mastroianni, Matrimonio all’italiana prende le mosse dal testo della celebre commedia teatrale di Eduardo De Filippo, eterno cavallo di battaglia di Titina De Filippo, una trasposizione assai libera, che Vittorio De Sica dovette prendere, per volere del suddetto Ponti, sulle misure della Loren.

Il film di De Sica comunque sa andare oltre la commedia che lo ha ispirato, proprio perché non prova a rifare il teatro ma sceglie a colpo sicuro il cinema e i suoi meccanismi, persino i flashback, che il regista sosteneva di non amare affatto.

Vittorio De Sica è l’uomo giusto per fotografare la Napoli dell’immediato dopoguerra e Sophia Loren è la donna giusta per portare in scena una carica di fisicità e disperazione rare, che la confermano capace di far vibrare anche le corde più intime.

Perchè ancora una volta, come già per “La ciociara”, si perpetua il miracolo di San Gennaro: donna Sophia nel ruolo di una fiera popolana recita da regina , tanto da meritare, come pure il film, una nomination all’Oscar.

Sul piano della narrazione, per combinare stilemi ottocenteschi, sentimentalismo partenopeo e vera poesia, il regista si circonda di quattro moschettieri della sceneggiatura: Piero De Bernardi, Leo Benvenuti, Renato Castellani e Tonino Guerra (quest’ultimo, si mormora, ingaggiato per una scena sola, ma la più intensa).

Passioni senza tempo, per un film d’altri tempi. Un bel film.

PREDATOR 2

Los Angeles, 1997. Nella città con inquinamento e ammazzamenti all’ennesima potenza tra Fbi e narcotrafficanti, dove non ti puoi fidare nemmeno dei poliziotti, un inafferabile killer giunto dall’altro mondo fa strage, senza distinzione alcuna, di agenti e spacciatori.

L’improvvisato macellaio, dopo aver squartato le sue vittime, sfugge con puntuali marameo al sempre più imbufalito tenente nero ( in tutti i sensi) Mike Harrigan (Danny Glover).

Le strade si riempiono di cadaveri martoriati, finchè l’alieno commette un errore: qualche goccia d’acqua lo rende visibile e non più invulnerabile.

Riusciranno a salvarlo gli amici sopraggiunti in tutta fretta dallo spazio?

PREDATOR 2 è un disordinato, sanguinolento e rumorosissimo cocktail di horror, fantascienza e poliziesco, diretto da Stephen Hopkins, maldestro seguito di un film non proprio da buttare con Arnold Schwarzenegger (scritto dagli stessi sceneggiatori).

Il regista si è sbizzarrito in macelleria di truculenza rara, che si agita in una Los Angeles futuribile (allora), ma oggi già ridicolmente sorpassata, seminando morte e incongruenze.

Paura?

Non fatemi ridere.

HIGHLANDER - L'ULTIMO IMMORTALE

New York. Da secoli va avanti la lotta per la supremazia tra gli immortali. La fine può sopraggiungere solo per mano di un loro simile.

Sono rimasti in due e la resa dei conti finale avviene ai nostri giorni. Uno è l’antiquario Conner MacLeod (Christopher Lambert), cinquecento anni ben portati grazie al dono dell’immortalità.

Già guerriero nella Scozia del sedicesimo secolo, ha avuto per maestro d’armi lo spagnolo Ramirez (Sean Connery), di qualche millennio più anziano, e per acerrimo nemico l’altro sopravvissuto: il perfido Kurgan.

Mentre attende la sfida lo scontro finale, se la spassa con Brenda Wyatt (Roxanne Hart), una seducente donzella esperta in arti marziali, che però fa gola anche al cattivone.

Affascinante fumetto avventuroso del regista Russell Mulcany e sceneggiato da Gregory Widden, Peter Bellwood e Larry Ferguson, un kolossal tecnicamente impeccabile, anche se approssimativo nell’analisi dei caratteri dei protagonisti.

Spettacolari i (molti) duelli con le lame scintillanti, splendidi costumi, mozzafiato i paesaggi della Scozia medioevale, che si rincorrono nei tanti flashback con le vicende sotto i grattacieli.

L’ancor atletico Sean Connery regge benissimo il confronto con il francese Christopher Lambert che all’epoca si guadagnò sul campo il titolo di preferito dalle teenager.

Seguito da Highlander II-Il ritorno.

BATMAN - IL RITORNO

Nell’immaginaria città di Gotham City. Abbandonato bambino nelle fogne dai genitori, il Pinguino (Danny De Vito), un piccoletto che odia la società, vuole vendicarsi contro la città di Gotham e ora pretende nientemeno che la poltrona di sindaco.

Intende mettere in pratica il suo piano criminoso con la complicità del ricchissimo Max Shreck (Christopher Walken), supercapitalista inquinatore senza scrupoli, che ha ucciso la dolce segretaria Selina Kyle (Michelle Pfeiffer), trasformandola nella seducente e malvagia Catwoman.

Invece ha l’animo nobile dell’idealista il giovane miliardario Bruce Wayne (Michael Keaton), che spesso si traveste da pipistrello per ostacolare i criminali.

Sotto a chi tocca.

BATMAN - IL RITORNO è una cupa, fluviale e costosissima (75 milioni di dollari) favola nera diretta dal gotico Tim Burton, densa di talento visionario (come spesso gli accade), dove il grottesco ha la meglio sull’umorismo.

Più ancora che nell’episodio pilota (abbondantemente rimpianto, nonostante la magnificenza degli orpelli), la centralità di Batman-Bruce Wayne è sacrificata ai suoi due nemici e a Catwoman, altra creatura dalla doppia personalità, ambigua nella sua neutralità.

Più che un seguito, è un riassunto delle idee del geniale Burton che sposta l’accento sui temi della diversità e dell’umiliazione, della solitudine e del riscatto.

Se lo splendore figurativo e le invenzioni registiche riscattano le debolezze della sceneggiatura, bisogna dire che il trio dei nemici è superbo.

Soprattutto nella Catwoman-Michelle Pfeiffer che non fa rimpiangere la biondissima Kim Basinger: sexy quanto lei, ma, almeno in questo ruolo, dannatamente più brava.


Seguito da Batman Forever.

I SOLITI SOSPETTI

San Pedro (California). Nel terribile rogo della nave esplosa nel porto muoiono in ventisette. Si salva solo il pregiudicato zoppo Verbal Kint (Kevin Spacey), che spiega allo spazientito tenente David Kujan (Chazz Palmentieri).: è cominciato tutto un mese e passa fa a New York.

Mi trovavo in un commissariato per un confronto all’americana: con me c’erano l’ex piedipiatti Dean Keaton (Gabriel Byrne), i soci in rapine Fenster (Benicio Del Toro) e McManus (Stephen Baldwin) e l’esperto di esplosivi Todd Hockney (Kevin Pollack). E se chiudi cinque malfattori in una stanza cosa accade?

Ma è ovvio! Si mettono d’accordo per un colpo grosso, nello specifico quasi cento milioni di dollari di coca.

Macchè, era solamente una trappola visto che si accorgono di essere manipolati a distanza da Kayser Söze, potente genio del crimine che nessuno ha mai visto.

Complesso, contorno , con inganni a ripetizione, voce narrante fuori campo, flashback, perfino immagini menzognere, ma affascinante ed avvincente poliziesco del regista genialoide Bryan Singer, abilissimo nel manovrare la macchina da presa, ma ancor di più nel mescolare le carte in tavola in una storia carica di suspense, colpi di scena e zone buie.

Fino al finale scioglimento dell’enigma con due colpi di scena.

I SOLITI SOSPETTI  racchiude gli elementi del thriller e del noir, ha la mala, ha gli sbirri, c’è la droga, c’è l’avvocato con la faccia inespressiva che difende il ricco e misterioso cliente, c’è un manovratore (Kaiser Soze) e i manovrati, i soliti sospetti che vengono convocati puntualmente ad ogni violazione anonima di legge al commissariato per essere torchiati dai ferocissimi agenti della polizia metropolitana. Quando un commissiario non sa a chi dare la colpa di un crimine, beh, si fa portare i soliti “sfigati” in questura per l’interrogatorio di rito.

Nella pellicola è titanica la figura di Spacey ma anche quella dell’avvocato Kobayashi (Pete Postlethwaite), abile doppiogiochista e scaltro truffatore dell’intero gruppo di ladri, che viene utilizzato per realizzare il colpo grosso con l’illusione del proprio arricchimento, ma che alla fine non fa che arricchire il solo personaggio che nell’ombra muove i fili.

La convocazione in commissariato, all’inizio del film, è solo un pretesto per mettere insieme, in maniera apparentemente casuale, il gruppo di lavoro ed è architettata da quel genio del male che sta preparando il colpo. Tutti, in questo film, vengono manovrati da Kaiser Soze: polizia, criminali, spacciatori, killers.

Già, ma chi diavolo è Kaiser Soze? Esiste o è solo un nome fittizio?

Recitazione di squadra con Kevin Spacey claudicante, che prese l’Oscar come miglior attore non protagonista con Christopher McQuarrie per la sceneggiatura, come suddetto, sopra tutti.

Non c'è due senza quattro

Rio de Janeiro. I ricchissimi cugini Coimbra, Antonio (Bud Spencer) e Sebastiano (Terence Hill), minacciati di morte da una gang capeggiata dal temibile Tango, si rivolgono ad un agenzia specializzata nel noleggio di sosia.

Incontrano in gran segreto Greg Wonder (Bud Spencer) e Elliot Vance (Terence Hill), rispettivamente sassofonista in libertà vigilata e cascatore in film d’azione, li piazzano al proprio posto e partono beati per una bella vacanza rilassante in Europa.

Ovviamente i due poveracci in mezzo ai miliardari fanno figuracce di tutti i colori, mentre la banda di killer le tenta tutte, invano, nel tentativo di fargli la festa.

NON C'E' DUE SENZA QUATTRO è una delle più grossolane e prevedibile commedie della simpatica e inossidabile coppia Bud Spencer-Terence Hill, ininterrottamente in pista dal lontano 1968 (I quattro dell’Ave Maria).

Il finto americano E.B. Clucher (quel furbacchione di Enzo Barboni è come molti sanno romano de Roma) conosce bene i meccanismi per far ridere.

L’idea del sosia e il gioco degli equivoci ha sempre funzionato al cinema: qui è arricchito da sberle a volontà.

SNACK BAR BUDAPEST

Una città di mare senza nome (la sua targa automobilistica è TB, le iniziali del regista). L’ex Avvocato 50enne (Giancarlo Giannini), legale sbandato e corrotto, da tempo radiato dall’albo, mentre accompagna la sua ragazza Milena (Raffaella Baracchi) ad abortire, ed essere stato con una prostituta che ha la civetteria d’usare profilattici blu, si lascia conquistare dai modi sofisticati e dalla parlantina del poco affidabile e giovanissimo gangster, tale Molecola (Francois Negret), il quale alla testa d’una banda di picchiatori e di allegre baldracche lo vuole con sé per realizzare un sogno faraonico: trasformare la città in un immenso luna-park dove trionfino il sangue e il sesso.

Dapprima lo stanco azzeccagarbugli partecipa con trasporto alle violente e pazze imprese della banda, poi ci ripensa quando il balordo ordina ai suoi scagnozzi di radere al suolo un localaccio, lo Snack Bar Budapest, gestito proprio da una strana coppia da lui difesa anni prima in tribunale.

Cercando di proteggere i malcapitati, uccide uno dei teppisti e la gang gli si rivolta contro.

Tratto dall’omonimo romanzo di Marco Lodoli e Silvia Bre, SNACK BAR BUDAPESTè un ambizioso, noioso (anche se condito  di nudità e sparatorie non trasmette alcuna emozione) e un tantino insulso melodramma grottesco che segna per Tinto Brass una sorta di svolta.

Finge di puntare al poliziesco, ma tradisce più volte la vocazione per il porno, sia pure soft, con la presenza di didietro femminili ( e altro) a tutta randa, spogliando e rispogliando le sue belle.

Tra queste si nota, non certo per il talento, la bionda Raffaella Baracchi, ormai dimenticatissima ex Miss Italia.

Come abbiamo suddetto, pur non abbandonando del tutto il suo cinema erotico,il regista veneziano con questa pellicola cerca derive diverse, innanzitutto nella costruzione dell’immagine. Il tributo ai fumetti hard-boiled americani e all’opera di Milo Manara è chiaro sin dalle prime scene: la misteriosa città che fa da sfondo alle vicende è immersa in un’atmosfera noir dove i toni prevalenti del blu elettrico e il buio dello sfondo, appiattiscono le immagini rendendo il tutto davvero simile alla vignetta di un fumetto.

Ma la ricerca iconografica non basta per fare di questo film, una pellicola che convinca in ogni suo aspetto. Se infatti lo sforzo di dare un’impatto forte allo spettatore con un’impianto visivo ben preciso (quasi radicale nel suo cambiamento) è certamente da premiare, Brass non riesce a trovare una compattezza narrativa, soprattutto per quanto riguarda la costruzione dei personaggi, che apparendo decisamente monodimensionali, rendono fasulli i loro cambiamenti.


Nemmeno un’attore come Giancarlo Giannini riesce a sollevarsi da un personaggio che ha poco da dirci, così come Francois Negret non risulta credibile nel ruolo del casereccio gangster adolescente. Nel cast anche la (futura) pornostar Valentine Demy.

Ultima considerazione: le donne avevano ancora il pelo.

L'ULTIMO BACIO

Roma. Aspetto un bambino, annuncia Giulia (Giovanna Mezzogiorno), mandando in crisi Carlo (Stefano Accorsi) e facendo sentire improvvisamente vecchia l’insoddisfatta mamma Anna (Stefania Sandrelli).

Il futuro padre festeggia con questa spina nel cuore l’addio al celibato di Marco (Pierfrancesco Favino), sul punto di sposarsi per interesse, insieme con gli amiconi di sempre, Adriano ( Giorgio Pasotti), che odia la moglie, Alberto e Paolo, ciascuno con qualche intimo turbamento.

Al rinfresco, dopo il matrimonio, il giovane resta folgorato dall’apparizione delle grazie di Francesca (Martina Stella) avvenente liceale: devo essere impazzito, cosa ci faccio con una liceale che ha dodici anni meno di me?

Eppure ormai ha perso la testa e Giulia mangia la foglia perchè , è noto, le bugie hanno vita breve. I sentimenti si palesano, poi salgono di tono e tutti alla fine stanno peggio.

Su, che la vita è bella.

Stilisticamente ordinata, garbata e astuta commedia social-sentimentale , terza opera del regista Gabriele Muccino, che dimostra di conoscere bene l’arte di sedurre il pubblico, anche perchè sa far recitare gli attori. E non è poco.

Al suo terzo film il regista passa dagli adolescenti arrabbiati e ribelli di “Ecco fatto” e “Come te nessuno mai” a ragazzi più grandi, ma non meno immaturi, Peter Pan incalliti con appresso mogli urlanti e suocere in crisi matrimoniale.

La storia, che in fondo è banale e stereotipata, è raccontata con grazia, la vena malinconica sovrasta l’umorismo e in fondo più di qualcuno potrà riconoscersi negli interpreti (soprattutto chi mastica il romanesco). Alla presenza dei quali è sicuramente dovuto molto del successo de “L’ultimo bacio” , che è anche il titolo della struggente canzone di Carmen Consoli inserita nella colonna sonora.

Gli pseudoamanti del cinema italiano, che scambiano quest’autore fin troppo fortunato per un novello Visconti, dovrebbero stare calmi evitando di parlare in maniera troppo entusiasta di attori da fiction Tv, come Martina Stella, e magari trascurano quelli veramente bravi, come Pierfrancesco Favino e Claudio Santamaria.

AVATAR

Usa, anno 2154. Anche costretto su una sedia a rotelle l’ex marine Jake Sully (Sam Worthington) si sente ancora un combattente.
Viene quindi reclutato come contractor al posto del fratello morto, per una missione la cui esecuzione richiede il trasferimento sul pianeta Pandora (distante 44 anni luce dalla Terra), dove si estrae un raro ( e prezioso) minerale ma con un atmosfera tossica e un ambiente inospitale per gli umani.

Il fratello era infatti uno degli scienziati cooptati per il programma Avatar, con cui piloti umani controllano dal laboratorio un corpo organico con le fattezze esteriori in tutto e per tutto simili a quelle dei nativi, per poter quindi esplorare il pianeta restando al sicuro dentro la base.
Insomma proiettare la propria coscienza in corpi creati con l'ingegneria genetica.

Pandora e i suoi giacimenti sono di un importanza vitale per gli umani visto che sulla Terra una catastrofe ecologica ha ridotto praticamente a zero le fonti di energia. Uomini d’affari avidi e militari si trovano così uniti nel tentativo di spoliazione del pianeta.

Il problema è che i Na’vi, gli indigeni del pianeta colorati come i puffi ed alti come i watussi, una razza che vive in perfetta simbiosi ed estremo rispetto con e per la natura circostante, non hanno alcuna intenzione di farsi colonizzare e sono così diventati l’ostacolo maggiore. Il compito iniziale di Jake, rinato nel suo corpo di Avatar, sarà quello di infiltrarsi tra gli indigeni, conoscerne usi e costumi e di farsi accettare all’interno delle loro comunità. Sarà così in grado di riferire se sia possibile sottometterli.

Esplora, esplora, esplora Jake conosce Neytiri (Zoe Saldana), una guerriera Na’vi figlia del capo tribù. Da lei impara a divenire un guerriero molto diverso dal marine che è stato e se ne innamora ricambiato. Da quel momento la sua visione dell’impresa cambia. L’amore fa brutti scherzi.

Così il guerriero che si credeva l’avanguardia del bene si ritrova ad essere, questa volta cosciente, al servizio del male.

Diretto dal regista James Cameron, AVATAR, elefantiaco kolossal futuribile, parla ben chiaro del presente e del recente passato degli Stati Uniti. Potremmo anche spingerci a dire che è la prima super produzione di Hollywood a giustificare, anzi auspicare la disfatta di Washington. E questa è il sottinteso, non condivisibile ma chiaro, politico.

Per la parte filmica invece James Cameron è tornato lanciando la sua sfida molto personale al mondo del cinema. Così come in Titanic, snobbato a torto dalla critica più vetero-conservatrice, anche in Avatar decide di basare l’impresa su una sceneggiatura che a un primo sguardo non può non apparire decisamente elementare (guadagnandosi anche facili e ironici riferimenti a Pocahontas).

Cameron si rivela, proprio grazie agli stereotipi narrativi di cui fa ampio uso, un vero autore pescando citazioni a piene mani dalla storia del cinema (non rinunciando, ad esempio, a citarsi richiamando in servizio la Sigourney Weaver, un tempo Ripley, però stavolta sta con gli alieni, offrendole un’entrata in scena provocatoria con sigaretta accesa o attingendo per il personaggio di Tsu’tey al Vento nei Capelli di Balla coi lupi) ma riesce a trasferirle nelle proprie ossessioni narrative. Che sono quelle (tanto per citarne solo alcune) della scoperta di ”nuovi mondi” da Abyss al già citato Titanic o del cosa significhi sentirsi alieno e sul cosa accade quando la prospettiva si rovescia.

Ma è soprattutto il mistero delle dinamiche organiche naturali e del loro rapporto con la Scienza e con i suoi prodotti (siano essi macchine come in Terminator o corpi che sono al contempo un sé e un’ altro da sé come gli avatar) che lo affascina. Non facendogli però mancare al pubblico (al più vasto possibile, indispensabile per riassorbire gli enormi capitali investiti e trarre un profitto) la tecnologia più avanzata (che qui non manca e lascia veramente a bocca aperta, un 3D quasi perfetto).

Anche se nel modo più accessibile è fondamentale suscitare un pensiero. In Titanic ci si immergeva alla ricerca di un tesoro e se ne riportava invece una traccia di memoria (il ritratto) che spingeva poi lo spettatore a interrogarsi su una nave che diveniva, senza superflue sottolineature, il simbolo della divisione in classi di una società.

In AVATAR, pensato 15 anni fa ma realizzato negli ultimi 4, la recente lezione della guerra in Iraq lascia le sue tracce profonde. Ancor più del discorso ecologico che sottende tutto il film (con la sua visione di un’energia da rispettare) è quello sulla facile identificazione nei nemici applicabile a coloro che posseggono le fonti energetiche che abbisognano ai più forti che maggiormente segna la narrazione. È storia di sempre, si dirà, già vista (al cinema) e sentita. Ma ci vogliono registi capaci di osare, consapevoli che tutte le storie sono già state narrate ma che alcune meritano di essere ribadite con tutta la forza della spettacolarità che è possibile mettere in campo.

Ultima considerazione: AVATAR  non è un film da divi: Sam Worthington prima del film era solo un bel ragazzo, anche se Cameron l'ha definito "Un Russell Crowe, ma più giovane".

The Bourne Ultimatum - Il ritorno dello sciacallo

Londra. Noah Vosen (David Straitharn), l’urticante capo dell’ala segreta della Cia, sguinzaglia i suoi killer sulle tracce di Simon Ross, un reporter troppo curioso che scrive per il Guardian, e dell’agente, rispuntato dal nulla e sempre nello stato di angoscia alimentata dal bisogno di sapere chi e perché lo ha trasformato in una macchina per uccidere cancellandone l’identità, Jason Bourne (Matt Damon).

A quanto suddetto si aggiunge il desiderio di vendicare la morte della sua compagna.

Ma se il giornalista ci lascia le penne, lo scaltro 007 riesce a sfangarla. A Madrid il fuggitivo riceve l’aiuto della giovanissima collega Nicky Parsons (Julia Stiles), con cui scappa a Tangeri, mentre il suo ex capo, spalleggiato, con qualche ritrosia, dalla risoluta Pamela Landy (Joan Allen), gli manda addosso l’ennesima squadraccia.

Sarà dura, come sempre, riportare a casa la pelle. E vendicarsi.

Eccitante, movimentato poliziesco che fila a perdifiato per mezzo mondo (il teatro dell’azione è estremamente vario: da Mosca a Londra, da Torino fino a Tangeri passando per la Spagna per poi tornare negli Stati Uniti per l’ epilogo che dovrebbe essere programmaticamente destinato a chiudere la trilogia), con ampio contorno di spie e debitamente aggrovigliato.

Il regista Paul Greengrass, che sembra essersi liberato da tutte le remore che in qualche misura frenavano i due blockbuster precedenti, riesce a tenere sempre alta la suspanse (Oscar a montaggio e sonoro) spargendo a piene mani adrenalina pura e dando vita a un film ipercinetico.

Dato per scontato che lo spettatore ’sappia’ ciò che è avvenuto in precedenza (e sostenendo le new entry con qualche essenziale riferimento al passato) l’azione può avere inizio giocando con gli spazi e la macchina da presa a un livello altamente virtuosistico.

La macchina per uccidere Jason è umanizzata quel tanto che basta per renderci partecipi della sua ricerca ma poi tutti diveniamo consapevoli della sua assoluta imbattibilità.

L’inseguimento nella stazione di Waterloo e la caccia sulle terrazze di Tangeri lasciano davvero senza fiato. È come se Greengrass, oltre che con il pubblico, giocasse con se stesso rendendo, a ogni nuova scena d’azione, tutto più difficile, svolgendo egregiamente la funzione di intrattenere con grande professionalità.

Il prode Matt Damon esce ammaccato da attentati devastanti e ha ormai ampiamente dimostrato di essere un attore con le carte in regola. Nei panni di Bourne è perfetto: ha il physique du role necessario per mostrarsi in costante equilibrio tra la credibilità del tormento e l’assoluta inverosimiglianza dell’azione. Al resto ci pensano gli stuntmen.

James Bond è avvertito.

THE RING

Seattle (Usa). Sono quattro gli adolescenti defunti , in luoghi diversi ma alla medesima ora, dopo aver guardato una misteriosa videocassetta e ricevuto una macabra quanto incredibile telefonata: morirai tra sette giorni.

La curiosa giornalista Rachel (Naomi Watts), zia di una delle vittime e madre apprensiva del piccolo Aidan, su richiesta della sorella indaga sul mistero.

Entrata in possesso del videotape, rimira in tv le inspiegabili, lugubri immagini e puntualmente le arriva la ferale telefonata.

Presto, devo risolvere l’enigma entro mercoledì, supplica l’amico ed ex boy-friend Noah (Martin Henderson), esperto in elettronica.

Il segreto sembra essere racchiuso tra la baita numero 12 di Shelter Mountain, il faro di Moskoe Island e la fattoria del burbero Richard Morgan (Brian Cox).

Il mistero è davvero sconvolgente, ma quando la vicenda sembra avviata a felice conclusione, Aidan, che è sensitivo ed è in contatto telepatico con l’entità che si nasconde dietro la videocassetta, le fa capire che manca ancora un ultimo tassello, fondamentale, per chiudere il cerchio.

THE RING è un angoscioso, ovviamente inverosimile, horror paranormale, diretto dal regista Gore Verbinski riprendendo, in maniera astuta, l’omonima pellicola che in Giappone fece scalpore nel 1998 .

“Ring”, è una parola, che, nella lingua inglese significa “anello”, ma è anche usata come onomatopea dello squillo del telefono. Il titolo quindi unisce armoniosamente la parola “anello” e quel suono; la prima è la forma circolare del coperchio del pozzo, attorno al quale ruotano gli avvenimenti, il secondo è il fatidico squillo, al termine della visione della videocassetta, anch’esso momento di grande suspance.





Nonostante le citazioni esplicite e ridondanti a Scream e IL SESTO SENSO, e qualche vuoto di sceneggiatura, nella prima parte qualche brivido lo procura, poi precipita in picchiata verso la più bieca routine.

L’interpretazione convincente di Naomi Watts e la confezione, molto più dignitosa della media del genere, si scontra con un intreccio a capocchia che ha in serbo l’affronto finale: ciao a tutti senza spiegazioni.

Bisognerà vedere il seguito, THE RING 2, diretto da Hideo Nakata, regista della versione giapponese?

1997: FUGA DA NEW YORK

New York, 1997. Com’è ridotta male la Grande Mela alle soglie del duemila. Rapinatori, spacciatori, battone, topi di mezzo metro e forse più, rifiuti che neanche a Napoli ai tempi d’oro di Bassolino e un’aria greve di violenza che incombe.

L’isola di Manhattan poi, è diventata un ghetto di massima sicurezza per criminali.

Ed è proprio lì che il boss del crimine, detto Duca (Isaac Hayes), tiene sotto sequestro il presidente a stelle e strisce (Donald Pleasence) costretto all’atterraggio per un guasto.

Il capo della polizia (Lee Van Cleef) interpella l’ex eroe pluridecorato della terza guerra mondiale, l’ergastolano Jena Plissken (Kurt Russell).

 Tu mi riporti l’erede di Reagan e io ti libero. Patto semplice semplice.

Hai ventiquattr’ore, buon viaggio.

L’apocalisse vista dal cattivo profeta (per fortuna ora possiamo dirlo) ma dal più grande regista horror (magari sconosciuto ai più giovani nda), John Carpenter che si è avventurato nel 1981 in un “esperimento” decisamente originale, quello di fare un film non definibile in nessun genere ma che allo stesso tempo si potesse considerare un insieme di generi, come la fantascienza, l’azione e l’horror.

Per questo 1997: FUGA DA NEW YORK il risultato è ben chiaro a tutti: una sensazionale avventura futuribile, densa di pathos e rigurgitante di violenza, un caleidoscopio di vibrante fascino scenografico e di strabiliante fantasia figurativa.

Inutile dire che il film è stato ed è tuttora un cult, che ha saputo conquistare molti spettatori che hanno eletto l’affascinante e spaccone Snake Plissken come un eroe osannandolo quasi come RAMBO.

E proprio la figura dell’eroe per caso, tormentato ed anche un po’antieroe, il soldato perfetto, plurimedagliato e decorato dal presidente degli Stati Uniti, si lascia trasportare dalla sua indole ribelle e compie una rapina alla banca centrale tanto da essere condannato all’ergastolo da scontare in una New York diventata una gabbia per qualsiasi tipo di galeotto dall’assassino seriale al barbone che magari aveva solo compiuto qualche furtarello occasionale.

In questo scenario apocalittico, avvincente e sconvolgente, in questo microcosmo scandito da atmosfere cupe e oscure, Carpenter ha costruito una storia che scorre senza tempi morti, in cui l’ottimo cast scelto, da Kurt Russell a Donald Pleasence a Lee Van Cleef fino al grande Ernest Borgnine, si muove benissimo, mettendo in campo le diverse e proprie personalità in un mondo isolato dalla brutture della realtà.

Alla fascinoso atmosfera notturna del film si aggiunge una piacevolissima vena ironica e beffarda che si mescola bene con l’azione del film, e con la suspence che accompagna l’intera missione del ribelle per missione, Jena.

Il film vuole in un certo senso raffigurare la società senza regole per eccellenza dove la legge non esiste ma si veste solo da carceriere e dove Carpenter mostra il carattere della società americana, in cui non c’è pietà per il detenuto e dove lo stato non si inchina ai ricatti, in questo caso lanciati dai detenuti del maxi carcere, ma si fa carico di un piano perfetto per risolvere la situazione critica venutasi a creare.

L’ultima scena è sicuramente la migliore, il nastro che il Presidente stava trasportando ad un delicatissimo congresso internazionale per riappacificare gli animi delle super potenze Russia e U.S.A, recuperato da Plissken viene scambiato con un altra audiocassetta e…

L’unico neo? Il 1997 è passato già da un pezzo e forse solo Bin Laden considerava New York un supercarcere.

URLA DEL SILENZIO

Cambogia, 1975. Il giornalista americano Sidney Schanberg (Sam Waterston), inviato del “New York Tímes” si avvale nella capitale Phnom Penh, oltre che dell’amicizia, della collaborazione del servizievole cronista indigeno e valoroso medico Dith Pran (Haing S. Ngor).

Nei giorni atroci di Pol Pot, il crudele dittatore pari, se non superiore, a Stalin ed Hitler, c’è solo una cosa da fare per i cittadini a stelle e strisce (presidente Nixon): scappare a gambe levate. E in più fretta possibile.

Il povero dottore invece finisce in un campo di lavoro, leggasi pure lager alla maniera comunista (con l’aggiunta dei lavori forzati), mentre l’amico torna in patria.

Finalmente dopo quattro anni la buona, anzi ottima notizia: Dith è sopravvissuto all’orrore e alla stagione di terrore dei khmer rossi filocinesi e Schanberg vola a riprenderselo dopo avergli liberato una poltrona al giornale.

Da una vicenda assolutamente reale, il regista francese Roland Joffè con URLA DAL SILENZIO (The Killing Fields) ha prodotto un dramma intenso, crudele e commovente, scarno nei dialoghi e poco incline alla retorica, che lascia parlare le immagini e vibrare i sentimenti, coniugando mirabilmente emozioni e sentimenti.

Tre Oscar, dopo le sette nomination, tra cui spicca quello a Haing S. Ngor, un non attore, purtroppo scomparso ancora giovane, che rivive terribili esperienze personali, tragedie di fronte alle quali non dovremmo restare indifferenti soltanto perché così lontane da noi, quei giorni più atroci della Cambogia, quelli dell’avvento di Pol Pot (1975) e del relativo genocidio che ne seguì (due milioni di morti per mano della follia collettiva comunista prodotto di una barbara utopia).

Il film ci porta a tu per tu con una realtà allucinante, i morsi dell’anima di Schanberg, la sorte pietosa di Dith Pran che ha pagato a carissimo prezzo la sua devozione all’amico e al mestiere. Dipanando il filo della cronaca, per cui si comincia col bombardamento del villaggio di Neak Luong da parte degli aerei americani , si prosegue con lo sgombero in fretta e furia dell’ambasciata Usa per l’arrivo dei kmher e i tentativi di Schanberg di far partire Dith Pran grazie a un passaporto falso, ci si sofferma sulle torture patite dal cronista cambogiano nei lager, si trepida per la sua fuga attraverso le foreste insieme a un compagno e al figlioletto d’un gerarca comunista, e finalmente ci si commuove quando Schanberg e Dith Pran tornano a stringersi in un abbraccio.

Tutti momenti rappresentati dal regista inglese Roland Joffé, all’esordio con questa opera nel cinema dopo buone esperienze in Tv, con una maturità spettacolare che giustifica la nostra partecipazione emotiva al film sul doppio versante dell’orrore e dell’angoscia.

Urla del silenzio, con riferimento ai campi della morte attraversati da Pran durante la fuga (un cimitero di scheletri lasciati marcire), è certamente un film di genere, che ha i suoi immediati precedenti in Un anno vissuto pericolosamente e in Sotto tiro -, l’uno sull’Indonesia, l’altro sul Nicaragua.

Inoltre nelle concitate sequenze dello sgombero dell’ambasciata americana e della corsa all’ultima aereo, ci consegna pezzi di grande cinema. Ugualmente centra il bersaglio quando caratterizza senza fronzoli i due protagonistí (aiutato dagli interpreti principali).

Né va passato sotto silenzio il buon lavoro che Joffé ha fatto sulla musica. Raramente è accaduto che il Puccini della Turandot (col «Nessun dorma» cantato da Franco Corelli) e le canzoni di John Lennon e Paul McCartney s’integrassero come qui alle immagini nei passaggi più intensi. Da segnalare anche la presenza di un giovane John Malkovich.
Per tutte queste ragioni Urla del silenzio è un film da vedere, e qua e là da discutere (soprattutto all’interno della sinistra).

Il suo lieto fine (almeno filmico e momentaneo, visto il destino del protagonista), che d’altronde stavolta non gli è stato imposto da Hollywood, è un piccolo inchino alla speranza, ma non cancella i segni crudissimi d’un resoconto in cui il raccapriccio che possa essere successo nel nostro tempo supera la fantasia della storia.

SCHEGGE DI PAURA

Chicago. E’ stato ucciso con la bellezza di 79 coltellate l’arcivescovo Rushman e la polizia non tarda ad incastrare Aaron Stampler (Edward Norton), un ragazzo del coro, spaurito come un pulcino e balbuziente, visto fuggire in tutta fretta dalla casa dell’alto prelato.

Insomma quelli che si chiamano “indizi schiaccianti”.

L’ambizioso (il più pagato della città) e cinico principe del foro Martin Vail (Richard Gere), appena assunta la difesa gratuita (pubblicità?) del giovane (povero), scopre che la vittima era un gran sporcaccione, grande fan di filminio porno gay da lui stesso interpretati con accondiscendenti (??) minorenni.

L’azzeccagarbugli extralusso dà subito battaglia in aula, arciconvinto di smontare pezzo per pezzo la montagna di indizi accumulati contro il suo cliente dalla sua ex Janet Venable (Laura Linney), piacente assistente del procuratore capo.

Epilogo a sorpresa, grossa sorpresa.

SCHEGGE DI PAURA è un astuto legal thriller, sottogenere di moda negli anni ‘90 a Hollywood, tratto da un romanzo di William Diehl e diretto da Gregory Hoblit (un regista che ha alle spalle molti premi Emmy televisivi per Hill Street giorno e notte e Avvocati a Los Angeles), che con un efficiente congegno di indagine ricco di tutti gli ingredienti regolamentari (sentimenti, sesso, perversioni), riesce a tenere avvinto alla corda dell’incertezza lo spettatore fino alla fine, tra manfrine legali e spiegazioni psicoanalitiche (magari non proprio attendibilissime).

Richard Gere è, come spesso gli capita, molto charmeur anche se questo non gli basta per togliere la medaglia di migliore in campo all’allucinato Edward Norton, qui all’esordio sulla scena.

Un vero fuoriclasse in erba.

GANGS OF NEW YORK

New York, 1862. Il giovane Amsterdam Vallon (Leonardo Di Caprio) esce dal riformatorio fermamente deciso a vendicare il padre, Padre Vallon, il coraggioso prete leader degli immigrati irlandesi, assassinato sedici anni prima dal feroce capo dei nativi, Bill Cutting "the Butcher" ( il Macellaio) (Daniel Day-Lewis) mentre si affrontavano nel quartiere di Five Points in una cruenta battaglia tra gangs.

Five Points è la zona della città che si estende tra il porto, Wall Street e Broadway, dove gli immigrati vivono ammucchiati, stivati in cunicoli per topi, e si combattono giorno dopo giorno per la supremazia: ladri, assassini, borseggiatori, pirati, prostitute, tirati da una parte o dall’altra da nuovi sindaci, nuovi politici, nuovi ricchi.

Il ragazzo conquista presto la fiducia del re dei bassifondi, che tiene in pugno la città col terrore e da tutti pretende il pizzo con l’aiuto del poliziotto corrotto Happy Jack (John C. Reilly), e arriva a contendergli la fiera borseggiatrice Jenny Everdaene (Cameron Diaz).

Finchè qualcuno fa la soffiata e il boss scopre la vera identità del devoto assistente. Una volta scoperto e sfigurato, non gli rimarrà che combattere apertamente contro di lui. E guerra. Ma sono gli anni della Guerra Civile: l’ultimo scontro tra le gang sarà decisamente superato in violenza e ferocia dall’intervento delle truppe inviate a far rispettare la coscrizione obbligatoria (solo chi ha 300 dollari in tasca può evitare la guerra).

GANGS OF NEW YORK è l'ambizioso, spettacolare, lugubre e violentissimo noir in costume, un dramma parastorico di Martin Scorsese che mette in scena la cruenta nascita dell’amata New York, ricostruita a Cinecittà da Dante Ferretti, dove tra coltellacci, asce e mazze il sangue scorre a fiumi.

Malgrado il cast stellare e le attese notevoli (dieci nomination e zero Oscar) il risultato è inferiore alle attese, un film imponente ma non ispirato.

Resta una somma smisurata di pezzi di bravura intervallata da lunghi tempi morti, con un cast adeguato nei ruoli di contorno ma poco azzeccato per quelli principali .

Se Daniel Day-Lewis è un esagerato cattivo, Leonardo Di Caprio quando fa la faccia truce spaventerebbe (forse) il gatto del vicino.

NANNY MCPHEE - TATA MATILDA

Londra, primo novecento ( l’Inghilterra a cavallo tra l’epoca vittoriana e quella edoardiana). La ricca prozia Adelaide (Angela Lansbury) gli ha dato l’ultimatum: o ti risposi entro un mese o non vedrai più un penny.

Così il mite impresario di pompe funebri, mr. Brown (Colin Firth), da poco vedovo, deve trovare una donna per sé, oltre alla tata per i suoi sette scatenati figli, che sono riusciti nell’impresa di farne scappare già diciassette (l’ultima governante è fuggita quando i sei diavoletti maggiori hanno messo in scena un cannibalesco banchetto, fingendo di mangiare il neonato).

Ed ecco bussare alla porta Nanny McPhee (Emma Thompson), praticamente la sorella brutta di Mary Poppins.

Molto brutta, perché Emma Thompson si è divertita con il trucco.

Denti orribili, naso bitorzoluto, porri grandi come noccioline, sopracciglio unico, pappagorgia e culone, abito nero che sa di muffa solo a guardarlo.

Nessuno sa da dove viene, né quale sia l’agenzia di collocamento dove richiedere i suoi servigi ma tant’è, adesso è nella casa ad affiancare la cuoca e la fantesca.

Cinque regole ben precise per far crescere i fanciulli e avviarli verso la strada degli adulti.

Miracolo, l’apparente strega ha un animo sensibile tanto da rendere presto degli angioletti i ragazzini terribili. E, prodigio numero due, l’aspetto migliora a vista d’occhio, via via più bella mentre le pesti migliorano grazie ai suoi incantesimi pedagogici.

E il depresso padrone di casa? Trova l’amore grazie alla servetta Evangeline (Kelly McDonald).

Piacevole e spiritosa commedia fantastica in perfetto stile british, tratto dall’omonimo romanzo di Christianna Brand, benissimo interpretata da una Emma Thompson, assoluta mattatrice, dai due volti, prima maltrattata dai truccatori, poi abbagliante per sex appeal.

Qualche riferimento a Harry Potter, qualcun altro a Mary Poppins, sua cugina di primo grado, una manciata di magic touch e un’atmosfera british, donano alla favola un tono classico e, allo stesso tempo grottesco.

E se il cinema di animazione oggi parla soprattutto agli adulti, questo film è diretto ai bambini, come le favole di un tempo.

Per poter ripetere ancora una volta “C’era una volta”.

RAMBO

Montana (Usa). Se ne va a zonzo per i fatti suoi, in cerca di un lavoro, l’ex berretto verde, reduce del Vietnam con tanto di medaglia al valore, John Rambo (Sylvester Stallone).

L'ex milite entra nel poco ridente paeselo soltanto per mettere sotto i denti un sandwich.

Trasandato e sguardo perso nel vuoto, è scambiato per un vagabondo dall’arrogante sceriffo Teasle (Brian Dennehy).

Sbattuto in guardina gli fanno pelo e contropelo a suon di pugni, ma sotto la crosta superficiale si accorgeranno di aver incocciato in una incazzatissima macchina da guerra.

Dio mio! hai visto che cicatrici?

Giusto il tempo di un amen, lui si ribella e rende le bastonate con gli interessi ai panciuti sbirri di provincia.

Poi inizia a fare quello per cui è stato addestrato e fugge sui monti: elicotteri, poliziotti, guardie nazionale e cani da caccia gli fanno un baffo, anzi di più, lo fanno sentire di nuovo in gioco.

E la preda si trasforma in cacciatore, finchè a smorzare la sua rabbia interviene, bontà sua, il suo ex comandante in Vietnam, Trautman (Richard Crenna).

Arrenditi, anche se ti è stata fatta un’ingiustizia. 

Questa è la riconoscenza per me e i miei compagni morti laggiù per servire la Patria?

Tratto dal romanzo Primo sangue di David Morrell con lo stesso Sylvester Stallone tra gli sceneggiatori che l’hanno adattato e diretto da Ted Kotcheff, RAMBO è un film che seppure dalla trama poco più che puerile è diventato in breve, sicuramente ben al di là delle intenzioni degli stessi autori, il simbolo dell’America con gli attributi, oltre che un clamoroso successo cinematografico.

In termini di dinamica filmica, s’affida all’atletismo schizofrenico di Stallone e sul piano spettacolare ha un’indubbia pur se elementare efficacia: alcune robuste sequenze d’azione, violentissimo, con un ritmo concitato, non concede pausa fino alla stonata chiusura finale, mielosa ed accondiscendente, sicuramente più da Carter che da Reagan.

Piacque a noi di destra perché ha al centro un ex eroe in divisa; a sinistra perché esalta un emarginato che combatte contro l’ordine costituito e accenna qualche critica allo Stato Maggiore dell’esercito americano per l’uso delle armi chimiche nella “sporca guerra”. Infine all’opinione pubblica statunitense per l’ingratitudine verso i reduci che non l’avevano vinta.

Insomma un successo planetario.

VANILLA SKY

New York. Il ricchissimo, giovane e bello, sottaniere David Aames (Tom Cruise), che avendo ereditato una grande casa editrice deve combattere contro i «sette nani» del consiglio di amministrazione, nel tempo libero flirta con la bionda Julie (Cameron Diaz).

Alla festa di compleanno resta però folgorato dalla bruna Sofia (Penélope Cruz) che identifica con la donna dei suoi sogni e, essendo abituato ad ottenere ciò che vuole, quando vuole, la frega all’amico romanziere Brian (Jason Lee).

La gelosissima fidanzata, scoperte le corna, lo scarrozza a tutta birra per la città.
"Quando due persone fanno l'amore, stringono un patto che non va tradito", sibila la ragazza. Poi si tuffa con lui da un cavalcavia, in un tentativo di suicidio/omicidio automobilistico.

Lei muore, il giovane resta sfigurato e con la maschera di lattice torna dall’iberica forestiera: sei Sofia o Julia?

Intanto ti soffoco con il cuscino, poi vedremo.

Urge il ricovero in un manicomio criminale, dove lo ritroviamo accusato di omicidio senza sapere (non lo sa neanche lui) quale delle sue amanti ha ucciso: la bionda Cameron Diaz o la bruna Penelope Cruz?

E’ affidato alle cure dell pacato psichiatra Mc Cabe (Kurt Russell): mio Dio! non ci capisco niente.

Giallo psicologico e fantascientifico, in bilico tra realtà ed allucinazione,di difficile comprensione del regista Cameron Crowe, che porta a spasso i suoi personaggi in una New York deserta e spettrale.
Il riso abbonda sulle labbra di Tom Cruise per tutta la prima parte di Vanilla Sky, ma poi si trasforma nel ghigno di un volto orrendamente sfigurato.
Però che pacchia confondere in continuazione sogno e realtà con un montaggio frenetico per far venire il mal di pancia allo spettatore.

Cose da pazzi! Un pò come piantare Cameron Diaz per Penelope Cruz.

E’ ben chiara la ricerca del regista dell’impeccabile equilibrio estetico di ogni inquadratura, spargendo per la scena un numero imprecisato di dettagli (soprattutto simboli della cultura pop), la copertina di un disco, una chitarra spezzata on stage o la locandina di un libro, focalizzando l’amore in un cielo color vaniglia ispirato da un quadro di Monet e disseminando l’invito al risveglio (“Apri gli occhi”) dell’originale spagnolo dal quale prende spunto, in tutta la seconda parte.

Colonna sonora strepitosa (R.E.M., Peter Gabriel, Paul McCartney, Radiohead, Chemical Bros, Bob Dylan).

VESNA VA VELOCE

Trieste. E’ arrivata in autobus da un villaggio della Repubblica Ceca la ventiduenne di bella presenza e priva di mezzi Vesna (Teresa Zajickova) e non è intenzionata a ripartire. Imboscatasi dopo la partenza del pullman, è decisa a tutto pur di non tornare al tristanzuolo paesello.

Probabilmente sa bene, o almeno immagina, che sarà costretta a vendere il proprio corpo pur se in prima battuta, quando un assicuratore (Silvio Orlando), seduttore titubante, la ospita per una notte, tentenna e si nega.

Anche l’autostop offerto da un camionista (Tony Sperandeo) fino alla riviera romagnola non comporta pagamenti in natura, ma è contrassegnato da un tragico episodio in qualche modo profetico: un ceco ubriaco e manesco, buttato fuori da un cameriere (Roberto Citran) da un autogrill, finisce stritolato nel traffico dell’autostrada.

Il primo duro scontro con la realtà avviene per mano (o per bocca) del proprietario di una tavola calda (Antonio Catania) dove la fuggitiva ha mangiato senza pagare: «Tu non te la puoi permettere, quella faccia là».

E infatti eccola a letto con il turpe Ivano Marescotti, eccola sottoposta al ricatto dell’albergatore che pretende 20.000 lire per ogni cliente portato in camera, eccola battere sul marciapiede con le altre compagne di sventura. Però in tal modo Vesna, messi insieme un po’ di soldi, può scapricciarsi in acquisti futili, in una felicità fittizia, inebriata dai soldi guadagnati vendendosi agli uomini e incantata dai negozi scintillanti e colmi di oggetti.

Affamata di libertà, chiusa, laconica, capace di scrivere a casa infinite bugie ottimiste, ha un’ostinazione desolata e ardita, una testarda volontà d’autonomia (persino la gratitudine le sembra una limitazione, i suoi grazie suonano come “vaffanculo”), uno sguardo insieme triste, nebbioso e duro. Quello sguardo vede dell’Italia soltanto le facce maschili affacciate al finestrino dell’automobile per valutare la merce femminile esposta sulla strada, le vetrine e i locali di Rimini, la roba acquistabile, i denari per comprare.

Una sera, una qualunque, spunta anche il classico puttaniere dal volto umano, il muratore caposquadra Antonio ( Antonio Albanese), che dopo esser stato suo cliente, prova ad avvicinarsi come persona, amico, amante. Ma lei gli sfugge: la sua determinazione a fare soldi è il suo destino.
Ma quando la ragazza si becca una coltellata da un magnaccia interessato alla percentuale (alta, altissima) sul suo guadagno, il capomastro è pronto a soccorrerla e ospitarla.

Alla testa di una squadretta operaia multirazziale, lui è abituato a trattare da pari a pari con gli ultimi, ma lei non intende accettare niente che abbia l’apparenza di un regalo. Da un’incomprensione all’altra (Antonio inizia ad amarla ma non arriva a capirla), in seguito a un incidente d’auto i due si ritrovano in una stazione dei carabinieri; e la clandestina, sprovvista di documenti, è trattenuta per il rimpatrio. Vesna però approfitta di una sosta sull’autostrada dei militi che la stanno portando a Firenze e fugge come il vento provocando dietro di sé una mezza catastrofe.

Perchè lei ha chiara una sola regola in testa: per sopravvivere bisogna correre. Veloce.

VESNA VA VELOCE, che rappresenta la definitiva consacrazione di Carlo Mazzacurati nell’empireo del rinascente cinema italiano, è film sensibile, ma diseguale, con molti passaggi a vuoto, anche se sfodera un intenso Albanese in un duetto di toccante verità.

Si può vendere il corpo, salvando l’anima?

Il regista prova a dirlo con attenzione, pudore, rispetto, senza la pretesa di penetrare nel mistero di un essere umano e di spiegarlo allo spettatore.

E in effetti più che raccontare una storia contempla e descrive una di quelle ragazze dell’Europa orientale, prostitute in Italia, spesso protagoniste della cronaca più nera.
Gli interpreti sono bravi.

Fulminante lo scambio di battute tra una ragazza e il semicalvo Albanese : “Hai un pettine? No, ho smesso”.

TUONO BLU

Los Angeles. La (solita) guerra in Vietnam ha sconvolto per sempre la mente del coraggioso poliziotto Frank Murphy (Roy Scheider).

Comunque il suo capo, l’impetuoso Braddock (Warren Oates), ha scelto proprio lui per controllare dall’alto la città, con il super equipaggiato elicottero Tuono Blu , e in particolare nella lotta contro il crimine del ghetto messicano.

Tuono Blu è una sofisticatissima fortezza volante in grado di controllare qualsiasi oggetto e di captare un sospiro a due chilometri di distanza.

Un mostro volante che spia, controlla e uccide.

Stando così le cose si dimostra un autentico fesso lo spocchioso colonnello Cochrane (Malcom McDowell), che prepara la rivoluzione senza troppe precauzioni.

TUONO BLU è un mirabolante e rumorosissimo poliziesco fantascientifico, ormai inesorabilmente superato dai tempi, diretto da John Badham, che s’arrampica ad alta quota per mettere in guardia il mondo dai rischi della tecnologia esasperata.

Stringato e avvincente nella prima parte, con molte invenzioni visive, si dilata poi in fanfaronate spettacolari.

Personaggi a due dimensioni, ma affascinante come flipper altisonante e multicolorato.

GIOCHI DI POTERE

Londra. Anche in vacanza con la moglie Cathy (Anne Archer) e la piccola Sally, l’ex analista della CIA e ora insegnate all’Accademia navale Jack Ryan (Harrison Ford) tiene gli occhi ben spalancati, tanto da sventare un attentato dell’IRA davanti a Buckingham Palace.

Pur ferito ad una spalla, riesce ad uccidere il fratello minore del temibile terrorista Sean Miller (Sean Bean), che finisce dentro e gliela giura.

Il cattivone evade con l’aiuto del capoccia Kevin O’Donnell (Patrick Bergin) per inseguirlo fino in Maryland , gli fa una guerra personale, infierendo vigliaccamente contro la dolce moglie e la figlioletta.

Adesso basta, peggio per lui.

Tratto dal romanzo omonimo (1987) di Tom Clancy e diretto dal regista Philip Noyce, GIOCHI DI POTERE è uno spettacolare e avvincente thriller fantapolitico non privo di evidenti inverosimiglianze, con personaggi schematici.

Rimane comunque ricco di inediti risvolti di alta tecnologia elettronica, forse anche per coprire le carenze di un copione fin troppo prevedibile.

Le immagini dei satelliti che scoprono il campo africano dei terroristi e guidano un attacco notturno in diretta da Washington sono una novità del genere e verranno riprese a piene mani in futuro (soprattutto da parte del regista Tony Scott).

Molte le sequenze cosidette mozzafiato, qualche gratuito eccesso di violenza, specie nel sanguinoso finale.

Harriso Ford, tutto muscoli, casa, famiglia e patria subentra ad Alec Baldwin nel ruolo di Jack Ryan già presente in Caccia a ottobre rosso.

Seguito da SOTTO IL SEGNO DEL PERICOLO.

ATTACCO AL POTERE

New York. Il bus stracolmo di passeggeri salta in aria proprio mentre Anthony Hubbard (Denzel Washington), capo di una speciale divisione dell’FBI, sta trattando con gli invisibili terroristi arabi.

Poi un altro autobus e a stretto giro di posta esplode un teatro a Broadway.

Infine una strage insanguina la sede del Fbi: 600 morti.

Ad affiancare l’investigatore arriva la spocchiosa agente della CIA Elise Kraft (Annette Bening), ammanicata con l’ambiguo arabo Samir.

Nella rete finiscono solo i pesci piccoli, la città è ormai in balia dei dinamitardi, tanto che la Casa Bianca ordina, su pressione del rude generale William Devereaux (Bruce Willis), a cui gli immigrati piacciono meno che a Bossi e Borghezio, lo stato di assedio.

Una volta sceso in campo, l’alto ufficiale ha buon gioco nell’imporre le maniere forti facendo saltare le garanzie costituzionali.

E Manhattan diventa presto un lager.

Sarà Hubbard a metterlo in condizioni di non nuocere riuscendo al contempo a fermare i terroristi.

ATTACCO AL POTERE è un avvincente, anche se un pò farraginoso e oltremodo partigiano, trattato di demagogica fantapolitica, un fumettone a cavallo tra spionaggio e poliziesco, scoppiettante, nel vero senso della parola, nella prima parte e chiaramente a corto di risorse nella seconda.

Da sottolineare la sceneggiatura sorprendentemente premonitrice sul ‘pericolo arabo’, in un film d’azione che si pone il problema della difesa della legalità senza dimenticare la sicurezza dei cittadini.

Come ai giorni nostri, insomma.

Denzel ‘buono’ e Bruce ‘cattivo’ a confronto.

HOLLYWOOD HOMICIDE

Los Angeles. Chi ha ammazzato quei quattro rapper emergenti?

Il raffinato capo dell’etichetta discografica che li ha lanciati, su cui ricadono tutti i sospetti, Antoine Sartain (Isaiah Washington), cade dalle nuvole, anche se lavora sottotraccia per ostacolare le indagini del maturo sergente Joe Gavilan (Harrison Ford), detective della squadra omicidi di Los Angeles con una vita privata in frantumi e che arrotonda lo stipendio facendo l’agente immobiliare, e del suo più giovane collega K.C. Calden (Josh Hartnett).


L’uno , reduce da tre matrimoni e in flirt con la dj e veggente Ruby (Lena Olin) è in rosso per l’attività di agente immobiliare e deve subire il rancoroso capo, il tenente Benny Macko (Bruce Greenwood), cui ha fregato la donna; l’altro invece nel tempo libero dà lezioni di yoga e ancora non ha deciso se la sua vocazione sia il distretto di polizia o gli studios di Hollywood.


Qui occorre la soffiata giusta per sbrogliare la matassa, magari della squillo Cleo (Lolita Davidovich).


Originale, piacevole poliziesco diretto da Ron Shelton, che innaffia una tradizionale detective story, infiorata di frenetici inseguimenti, con abbondanti secchiate di umorismo.


La battuta più bella? E’ del sorprendentemente autoironico Harrison Ford:

“Se prendo uno pillola per la memoria riesco a ricordarmi dove ho messo il Viagra”

UNA MOGLIE BELLISSIMA

Anghiari (Arezzo). Vive felice nella provincia toscana accanto alla solare moglie Miranda (Laura Torrisi) il placido Mariano (Leonardo Pieraccioni), che con lei gestisce un banco di frutta e verdura al mercato, sognando di acquistare un giorno una bottega dove trasferire la loro attività.

Mentre si fanno le prove per una messinscena amatoriale di Grease, cui partecipano anche il mercante di stoviglie Baccano (Massimo Ceccherini) e lo scombinatissimo Pomodoro (Rocco Papaleo), capita nei paraggi il fascinoso fotografo di Beautiful Life Andrea (Gabriel Garko).

La bellezza morbida e sensuale dell'ortolana "esposta" anche come primizia al mercato non sfugge al fotografo di moda, che le offre un assegno di cinquantamila euro e successo in cambio di dodici scatti senza veli.

Al secco no del marito, l'offerta si alza e la ragazza cede e per realizzare il loro progetto, la coppia accetta la proposta e la bella ortolana posa per realizzare il servizio fotografico nella bella cornice delle Seychelles.
Fama e fiumi di champagne finiranno per confonderla e per spingerla tra le braccia del seducente e sedicente fotografo.

Sarà per sempre?

Mariano perde la moglie ma non la speranza.

UNA MOGLIE BELLISSIMA è una spigliata commedia sentimentale dalla trama annacquata scritta (con il fido Giovanni Veronesi), diretta e interpretata da Leonardo Pieraccioni, che non riesce a ritrovare l'ispirazione dei tempi d'oro.
La storia è banalotta ed è ambientata nella provincia toscana ancora una volta travolta dall'arrivo di un agente esterno che ne sconvolgerà gli equilibri. Sostituite le cinque ballerine di flamenco col fotografo farabutto di Gabriel Garko, saranno proprio il suo fascino e la sua proposta indecente a far capitolare la procace moglie dell'ortolano.

Accumulando pretese irritanti (la critica alla società dello spettacolo, alla politica e ai costumi italiani) accanto a scelte marchiane (ridere sull'obesità e dell'obesità di un bambino), il cinema di Pieraccioni non sembra in grado di rivitalizzare le forme della commedia all'italiana.

Un unico momento di umorismo è dato dalle stranezze fiscali dell'Italia spiegate ai foresti. Anche se quelle fanno piangere i cittadini comuni, più che farli ridere.

Inoltre c'è Tony Sperandeo nella parte del parroco caduto in depressione, che non esce di casa da due mesi e ha perduto la fede; c'è Francesco Guccini col sigaro che dirige le prove del musical Grease interpretato da dilettanti della cittadina di Anghiari e ha un unico commento, «Non ho parole».

Soprattutto c'è il fatto che l'adulterio, anche quello di lei, non manda in pezzi una coppia coniugale innamorata: come succede nella vita.

Per ultimo il titolo, che non mente: Laura Torrisi è veramente bellissima.

LA MALEDIZIONE DELLA PRIMA LUNA

Isola di Port Royal, Caraibi, XVII secolo. Come soffre la bella Elizabeth (Keira Knightley), dolce figlia del governatore Swann (Jonathan Pryce): non le piace proprio il promesso sposo, l'arrogante capitano delle guardie Norrington (Jack Davenport).

La simpatia la riserva a un amico d'infanzia, segretamente innamorato di lei, il fabbro Will Turner (Orlando Bloom), salvato anni prima in alto mare: è l'ignaro seme di un celebre pirata, come dimostra il medaglione che la ragazza conserva gelosamente e segretamente.

La ragazza viene rapita dal malvagio pirata Barbossa (George Rush), che ha assaltato la città.

Will Turner si unisce così a Jack Sparrow (Johnny Depp), un pirata vagabondo di passaggio e per cui la parola strano suona eufemistica, per portare in salvo la fanciulla. All'assalto miei prodi.

Ma per riuscire nell'impresa dovranno affrontare misteriose e sinistre forze del male che risalgono addirittura a una maledizione azteca...

Scintillante kolossal (disneyano al 100%) avventuroso, molto ben fatto ma abbastanza lungo (due ore e venti), come i successivi e ricchi (d'incassi), peraltro, che rispolvera con divertimento le leggende della filibusta.

Il regista Gore Verbinski padroneggia la materia con sufficiente energia e ironia, non risparmiandosi citazioni e ammiccamenti al passato ma non perdendo mai di vista lo svolgersi del racconto.

Gli spiritosi dialoghi, i duelli con gli zombi e gli splendidi costumi fanno da cornice alle smorfie di Johnny Depp, denti d'oro e recitazione strafottente, in una interpretazione di divertita gigioneria.
Non manca qualche sequenza ben girata, come quella dell'arrembaggio.

Non da oscar, ma per passare due ore sul divano di casa va più che bene.

SINDROME CINESE

California. La tosta e piacente cronista tv Kimberly Wells (Jane Fonda) e il suo fido cameraman Richard Adams (Michael Douglas), durante un servizio di routine, sono testimoni oculari di un guasto tecnico e relativo scoppio nella (immaginaria) centrale atomica di Ventana che crea una tremarella pazzesca agli addetti ai lavori (potrebbe provocare un'esplosione nucleare).

Lo svelto giovanotto, fiutata l'occasione propizia, ha fatto di soppiatto qualche ripresa, ma il timoroso direttore della rete blocca la messa in onda: non voglio grane, soprattutto giudiziarie.

Le autorità vorrebbero, come da prassi ed immaginario "sinceramente democratico", insabbiare la notizia, ma un ingegnere coraggioso, il responsabile tecnico dell'impianto, Jack Godell (Jack Lemmon), colpito da improvviso pentimento, denuncia le carenze dei sistemi di sicurezza: è stata evitata per un pelo un'anteprima di Chernobyl.

Meglio farlo tacere. Per sempre, ovviamente.

SINDROME CINESE (The China Syndrome) è un robusto ed avvincente film di denuncia, costruito come un giallo, con messaggio antinucleare incorporato, scritto dal regista James Bridges e prodotto da Michael Douglas, che si scaglia contro i bavagli alla libera informazione, imposti da chi con il pretesto del progresso pensa solo ad arricchirsi. Di soldi, oltre che di uranio (il titolo allude al versamento di uranio, che può bucare la terra da parte a parte).

Negli Stati Uniti il film uscì in concomitanza con il vero incidente nella centrale di Three Miles Island presso Harrisburg (Pennsylvania) e da più parti (nordamericane) fu accusato di isteria, allarmismo, ma che si rivelò più realistico e profetico del previsto.

Anche se sarebbe auspicabile non tanto un radicale rifiuto dell’atomo, ma quanto un controllo da parte dell’opinione pubblica che scavalchi gli interessi (grossi) in gioco delle onnivore (di utili) compagnie.

Una strizzata d'occhio agli antinuclearisti e una sberla agli industriali (fascisti, ovvio, ca va sans dire): che cosa poteva desiderare di più l'allora, peraltro bravissima e bellissima, comunista Jane Fonda?

Un premio a Cannes per Jack Lemmon.

PIRATI DEI CARAIBI - AI CONFINI DEL MONDO

Singapore, XVII secolo. Dov'è finito il filibustiere Jack Sparrow (Johnny Depp)?

Intanto sono tempi duri per i pirati. Un re tiranno ha ordinato che non ne resti nemmeno uno. Muoiano impiccati uomini, donne e bambini che abbiano mostrato pietà per quei filibustieri.

Per contrastare l'ondata di terrore e le flotte della Compagnia delle Indie Orientali, capitanate dall'odioso Lord Beckett, non rimane che rintracciare i Nove Pirati della Fratellanza e tentare una strategia difensiva.

I colombi Will Turner (Orlando Bloom) e Elizabeth Shaw (Keira Knightley) s'imbarcano sul galeone del ruvido capitano Barbarossa (Geoffrey Rush)e raggiungono Singapore per procurarsi l'alleanza del pirata giallo Sao Feng, temibile pirata cinese col vizio del vapore.

Ma si sa i pirati sono volubili e ciascuno nutre in cuor proprio un interesse personale: Will vuole uccidere Davy Jones (Bill Nighy) e recuperare il padre alla vita, Elizabeth e Barbossa desiderano raggiungere Jack Sparrow ai confini del mondo, liberarlo dalla maledizione di Jones e riorganizzare con lui la Fratellanza.

Ecco finalmente il naufrago, il capitano Sparrow, accaparrato dal cattivo Jones e conservato quasi folle in un limbo bianco accecante e salato, che sulle prime scambia gli sbigottiti soccorritori per un'allucinazione.

Saliti tutti a bordo della Perla Nera, se la dovranno vedere con il crudele Lord Beckett, che ha al suo soldo l'Olandese Volante e i suoi zombi e il cuore del suo capitano, grazie ai quali sogna di governare il mare e di spazzarlo dagli odiosi nemici.

Appuntamento alla Baia dei relitti dove la capricciosa dea Calypso, regina degli abissi costretta in un corpo umano, deciderà le sorti dello scontro navale. In fondo al mare e alla battaglia i pirati troveranno un tesoro: l'amicizia.

Fragoroso ed estenuante (è tirato abbastanza per le lunghe) kolossal avventuroso, terza, incasinatissima ultima tappa (per adesso?) della saga corsaro-caraibica varata quattro anni prima, sempre dal fantasioso Gore Verbinski, che salpa per mare eccedendo la misura e invadendo il racconto di battaglie spettacolari.

Esplosioni di assi, alberi abbattuti, cannonate assordanti, micidiali palle di cannone, sciabole sferraglianti, abissamenti e ammaraggi scoperchiano letteralmente il mare e sguinzagliano la fantasia degli autori.

Ai confini "dei pirati" si conciliano due anime inconciliabili: guerra e piacere. Più il conflitto cresce in accanimento più aumenta l'esibizione della bravura, l'ammirazione estetica dell'azione di guerra che diventa una danza in equilibrio sull'abisso azzurro. Come fu per la Compagnia dell'Anello, anche i Pirati dei Caraibi controvertono gli archetipi delle fiabe dove la ricerca è sempre per la conquista di qualcosa. Qui invece l'obiettivo diventa la distruzione di qualcosa: il cuore del Capitano Davy Jones.

Torna l'idea dello "sporco" gruppo composito, costretto all'unità dalla bisogna che combatte battaglie e trova aiutanti più o meno magici. Un'identità di razze separate (pirati sì ma francesi, africani, indiani, cinesi) che stenta a farsi collettiva ed è ricca di spassosissimi conflitti interni poi annullati nella frenesia dell'azione.

I protagonisti uniti e resistenti troveranno il collante per rimanere strumenti funzionali al progetto comune: combattere i cattivi capitani.

Ad aiutare i ragazzacci di Verbinski accorrono i padri, quello trapassato di Elizabeth, quello dannato di Will e quello di Jack, dispensatori di saggezza e conoscenza.
Il vero protagonista, Johnny Depp, riempie lo schermo, già inondato da un oceano di parole ed azioni, mettendo in scena, con le sue smorfie, la declinazione ironica dell'eroe.

Corpo grottesco e carnevalesco alienato da se stesso e proiettato e frammentato in dieci, cento, mille Sparrow che vivono e agiscono a un tempo ciascuno per proprio conto, governando la Perla Nera o ramazzando il suo ponte.

Personalità multiple e simultanee che soffocano l'incantevole Keira Knightley e il grigio e dimesso Orlando Bloom.

Si finisce brindando. Alla prossima rotta.

NIKITA

Parigi. Drogata fino agli occhi, la giovanissima eroinomane Nikita (Anne Parillaud) entra con tre balordi in farmacia per rubare la dose giornaliera: arrivano gli agenti ed è un bagno di sangue, visto che muoiono tutti tranne lei.

Condannata all'ergastolo, in un carcere di massima sicurezza, riceve la visita dell'ambiguo agente dei servizi segreti francesi Bob (Tcheky Karyo) che gli propone di diventare una killer al servizio dello Stato e cambiare identità.

L'idea è di trasformarla in uno zerozerotette micidiale, con licenza di uccidere.

Lei accetta e inizia un duro e interminabile tirocinio, diventa killer in servizio permanente, anche se l'ingenuo fidanzato, il cassiere (Jean-Hugues Anglade) la crede sempre un'infermiera.

Il granitico istruttore le mette le armi in mano e la sbatte di qui e di là e lei esegue puntuale.

Finchè si stanca e realizza che la sua doppia vita potrebbe distruggere la sua vita sentimentale.

NIKITA è senza dubbio un affascinante poliziesco del geniale Luc Besson (probabilmente il suo lavoro più riuscito) che fa un film nero in tutti i sensi dimostrando di saper combinare l'efficienza di un regista hollywoodiano nelle scene d'azione con la sottigliezza di un regista europeo.

Incongruenze e qualche assurdità finiscono schiacciate dal ritmo frenetico, dal clima di angoscia crescente, dalle invenzioni scenografiche.

Permeato da una forte violenza, si avvale di una spigolosa e seducente Anne Parillaud che, se è carente di seno non lo è certo nelle gamme espressive, dando così al personaggio un tono sensuale ed indecifrabile, ora implacabile giustiziera, ora dolce innamorata, tra sparatorie e scene di pura disperazione.

Rifatto a Hollywood (con le note peggiorative del caso) con "Nome in codice: Nina" e divenuto in seguito una fortunata serie TV.