ARRIVEDERCI AMORE, CIAO

Noir. All’italiana.

Giorgio (Alessio Boni, più bello che bravo. Come Gion Travolta in Pulp Fiction) è un ex-giovane terrorista caduto, nel peggiore dei modi, nel trappolone di sinistra (sapete la panzana utopica del ribaltamento della società borghese ect ect. Ammazzando povera gente).

Condannato all'ergastolo ha trovato rifugio in un avamposto guerrigliero nella giungla (una qualsiasi) del Centro America. Mettendo tra se e l’Italia una distanza non solo geografica.

Nel 1989, col crollo del muro di Berlino e successivi sconvolgimenti, stanco di fango e pioggia, decide di rientrare in Italia per avere quella vita “normale” che non aveva assaporato a pieno.

Consegnatosi alla polizia, appena mette piede in Italia in un amen spiffera tutto alla madama (la polizia nda. Per le femmine e i cantanti) su…su…diciamo “energica spinta” in un interrogatorio “cementizio” del corrottissimo vice questore della Digos, Anedda (un perfetto, sporco, marcio ed apparentemente invincibile Michele Placido), rivelando i tanti nomi dei suoi vecchi compagni di battaglia.

Scontata una pena minima in carcere, grazie alla “cantata”, il Codice Penale prevede cinque anni di buona condotta per ottenere la riabilitazione e Giorgio la vuole ad ogni costo e con ogni mezzo. E qui inizia la storia vera, perché il suo impegno verso la reintegrazione sociale avrà la stessa forza di uno schiacciasassi e abbatterà vite colpevoli e innocenti.

E il personaggio appare schiacciato da un meccanismo opprimente che è difficile fermare in corsa, anche perché quella corsa rappresenta la tua vita, e caratterizzato da una forte dicotomia: sembra avere qualche dubbio morale, o forse pentimento chissà, vista l’inutilità, solo per quel primo atto scellerato (la bomba messa per la causa dell’Ideale con vittima innocente annessa), ma non mostra assolutamente dubbi morali nella seconda parte di vita, in quella risalita verso un posto al sole, fuori dalle nebbie degli errori giovanili e dalle brutture della latitanza.

Giorgio sembra dirci: “Non è colpa mia, io non faccio altro che difendermi. E’ la vita che mi attacca”. Con il presente trafitto da piccole feritoie sul passato, in una teologia dove il passato è un grande errore e il futuro una camera oscura . Da illuminare. Con fotografie a colori. Ad ogni umano costo.

Il film di Michele Soavi è tratto dal romanzo di Massimo Carlotto (per inciso:condannato da giovane per un delitto di cui si è sempre dichiarato innocente. Espatrio e latitanza. Come dire, sa di cosa parla. O scrive, se preferite) e senza ricorso alla poetica stantia e irritante racconta la parte peggiore della generazione giovane degli e negli anni '70.

 La visione del regista dei famigerati anni di piombo è tutt'altro che romantica e ribellistica, la lotta armata (alta) e i suoi crimini (bassi) sono storia vera. Potremmo anche vedere in Giorgio una mappa del tardo novecento che, dopo aver bruciato tutti i sogni e le illusioni, ha lasciato dietro di sé solo un cumulo di macerie, senza più punti cardinali, senza più est e senza più ovest. Solo il vagare ramingo di certi illusi interpreti, affamati di identità e personalissimo interesse. In una risalita/ricerca senza cedimenti.

Risalita che inizia quando Giorgio si sistema come gorilla di fiducia di un piccolo boss cravattaro, cocainomane e chissà che altro, mandandogli avanti il night-club a luci rosse. E' la parte acida dei corpi femminili nudi, dei rotoli di banconote e della cocaina. Tanta. Con annesso ricatto erotico con la signora bene, sensuale e disponibile ai compromessi Flora (Isabella Ferrari. Devo cedere alla poetica: proprio una bella Topa) e la routine di creste alle marchette spezzata quando esagera. Nella cresta, dico.




Caduto nel deragliamento morale di un era dove la felicità è sempre un po’ più in là del tuo orizzonte, propone ad Anedda addirittura una rapina ad un furgone portavalori, con tiratori ustascia, anarchici spagnoli (Dio che miscelaggio politico. Da brividi!) e armi automatiche comprese. Con tanto di duello finale per far fuori gli scomodi compagni. Con una violenza esibita e rossastra.

Con la sua parte di bottino Giorgio apre un ristorante in un sonnacchioso capoluogo del ricco italico nord-est, se ne sta calmo calmo mentre la sua fedina penale gli viene accuratamente ripulita con la compiacenza di un politico locale (Carlo Cecchi) che in verità ricorda più un signorotto siciliano che un politico demo-catto del nostro nord-est.E inizia anche l’ultimo atto di quella che potrebbe essere la sua vittoria finale:una love story con l'ordinaria e innocente Roberta (Alina Nedelea).

Sembra tutto perfetto, quando il vecchio amico/nemico si presenta alla sua porta per un ultimo favore. Che sarà l’ultimo per davvero, perché fa fuori anche Anedda. Per far sì che sia veramente l’ultimo.

Ma la verità sembra venire rumorosamente a galla quando la moglie in pectore inizia ad unire i puntini. E quindi il finale. Amaro. Crudele. Lontano anni luce dall’Utopia iniziale. Perché bisogna morire "un po' per poter vivere". Come ci ricorda la colonna sonora e la voce fuori campo.

ARRIVEDERCI AMORE, CIAO, è sicuramente un film scorrevole,rapido nello svolgimento e di taglio deciso che si snoda in un contesto arido e violento unito, sullo sfondo, a lampi di storia della società italiana dell'ultimo quarto di secolo (la follia della lotta armata e la sua elaborazione, l'aspirazione della malavita al passaggio nelle classi sociali ricche ed elitarie, il piccolo benessere della provincia contrapposto alla miseria anche morale delle periferie inurbate).

Il personaggio principale? Tutto questo sarebbe troppo pesante per qualsiasi coscienza. Meglio non averla. Punto.