DRUGSTORE COWBOY

Portland, Oregon, anni '70. Hanno escogitato proprio un bel metodo i quattro tossicodipendenti Bob (Matt Dillon), sua moglie Diane (Kelly Lynch), lo sprovveduto amico Rick e la giovane Nadine, inesperta fidanzata di quest'ultimo, per procurarsi "roba" di gran qualità: furti nelle farmacie e negli ospedali.

Ma lo sciagurato gruppo è sempre più braccato dal piedipiatti della narcotici Gentry: ragazzi miei, è l'ora di cambiar aria, sentenzia il capo, tra uno sballo e l'altro.

Così la sballata combriccola inizia a spostarsi di città in città, passando da una rapina all'altra per sostenere le proprie "abitudini". In pratica fuggendo in continuazione.

Eppure malgrado tutto la loro principale preoccupazione è quella di non tirarsi addosso la malasorte, magari dimenticando un cappello sopra il letto o, argomento vietatissimo nel gruppo, parlando di cani.

Quando Nadine, che non si era mai inserita pienamente nel gruppo, muore per overdose, Bob rimane profondamente turbato e capisce che è venuto il momento di impegnarsi a fondo per disintossicarsi.

Non sarà così facile iniziare una nuova vita, malgrado il metadone. Le durezze della vita quotidiana e i fantasmi del passato sono sempre in agguato.

DRUGSTORE COWBOY, stralunato dramma surreale, è la seconda prova del regista Gus Van Sant e sono le vicende, ora tragiche ora ironiche, di Bob, narrate da lui stesso dal lettino di un'ambulanza in un lungo flashback.

Il regista realizza un efficacissimo ritratto di una gruppo di sbandati tossici raccontati senza alcuna forma di compiacimento ma in modo quasi documentaristico e molto efficace.
Non eroi maledetti ma personaggi dalla sofferta umanità.

Un film sulla droga che esce da certi fastidiosi clichè di immagini sfuocate e musica techno. La droga è noia, attesa, una vita buttata, un impegno nel procurarsela che sa quasi d'impiegatizio, altro che ribellione. 

Non c'è maledettismo psichedelico, il drogato è una persona vuota e per niente interessante: Matt Dillon, in uno dei migliori ruoli della sua carriera, e il regista Van Sant rendono perfettamente l'idea.

In una piccola particina da tossico filosofo compare anche uno dei guru delle droghe e della beat generation: William Burroughs.