IL FIGLIO PIU' PICCOLO

Bologna. Luciano Baietti (Christian De Sica) è un piccolo imprenditore di pochi scrupoli e tanta ambizione che nel giorno stesso in cui sposa la candida Fiamma (Laura Morante), la donna da cui ha avuto due figli, scompare assieme a un eccentrico contabile, il mancato frate Sergio Bollino (Luca Zingaretti), portando con sé la proprietà di tutti i beni immobili.

Diciotto anni dopo è dirigente della Baietti Enterprise, una delle più importanti società immobiliari del paese, nonché capo di un impero economico costruito su raccomandazioni, ricatti, società fantasma e connivenze politiche.

Alla vigilia delle seconde nozze con una ricca romana politicamente in vista, Baietti richiama la prima moglie, che nel frattempo non ha mai smesso di amarlo, e il figlio più piccolo, Baldo (Nicola Nocella), studente dams che sogna di girare un film splatter, per invitarlo ad essere testimone alle sue nuove nozze.

Parte felice per Roma il giovane povero Baldo Baietti, accompagnato dal sorriso della candida Mamma Fiamma e dalla rabbia del fratello Paolo, che invece non ha mai perdonato il padre fuggiasco.
La gioia del ragazzo diventa entusiasmo appena l'affettuoso padre, su consiglio dell'amministratore, gli comunica che ha deciso di lasciargli tutto, bastano un paio di firme.

Ma il bel sogno dura poco: l'azienda è indebitata col fisco per oltre 55 milioni. E ora che si fa?

IL FIGLIO PIU' PICCOLO è una fiacca e deludente tragicommedia del pur prolifico ed eclettico Pupi Avati, la storia di un imprenditore fallito, sotto tutti i punti di vista, così cinico da scaricare sul figlio innocente (e troppo ingenuo, leggi scemo) guai finanziari e frustrazioni assortite.
Bisogna riconoscere al regista che fra i colleghi della sua generazione, è stato l'unico a non essersi mai realmente interessato a perseguire un progetto di cinema “politico” (sicuramente più "remunerativo" da parte della critica, lo so è una parola grossa, italiota) anche nel momento in cui tutti sposavano (per interesse) la passione artistica con il fermento politico.

Una trama un pò macchinosa che fatica a stare in piedi e per di più non dà palpiti, nonostante la discreta prova del barbuto Christian De Sica, una carogna capace di autoindignazione, tra ometti patetici (forse troppo). Dallo “squalo” della finanza ipocondriaco in sandali da frate Zingaretti alla cantante hippie e polemica Morante, dalla nuova moglie, volgare borghesuccia romana che combatte la partitocrazia della politica con una squadra di tronisti palestrati.

Nello scontro, per la prima volta cercato e trovato, con la decadenza dei nostri costumi, il principio che Avati mette in gioco è radicale ma interessante: l'Italia si riduce ad un contrasto fra furbetti del quartierino e Candidi sognatori (leggi scemi, di nuovo), fra chi ha fatto sì che corruzione, volgarità e impunità diventassero i soli valori e chi ha lasciato passivamente che ciò accadesse, per quieto vivere o perché incapace di comprendere i mutamenti in atto.

Il problema è che se doveva essere un film critico e di denuncia, Avati non trova la forza ed il coraggio di andare fino in fondo, di premere sull’acceleratore ed allora si perde in una forma di moralismo popolare buonista che, in definitiva, non condanna lo stato delle cose, ma quasi lo osserva con sguardo rassegnato, umanizzando fin troppo gli strambi (ma letali, per gli altri) personaggi.