COME DIO COMANDA

Friuli. Una provincia del Nord Italia, terra desolata ai piedi delle montagne e tra i boschi: fabbriche, capannoni industriali, casette a schiera, centri commerciali, immense segherie, cumuli di alberi tagliati e accatastati. Diluvi. Cielo grigio.
Vive con il timido figlio quattordicenne Cristiano (Alvaro Caleca), già ammaccato dall'adolescenza e minacciato da un assistente sociale (Fabio De Luigi) che potrebbe strapparlo al padre, il prepotente Rino Zena (Filippo Timi), un nazista convinto (ma spaventato: non vuole si sappia, teme di finire all'indice) e xenofobo, accanito collezionista di armi.

Che però stravede per il ragazzo, a cui ogni giorno insegna, nella sua rozza maniera, l'arte di arrangiarsi, senza mai porgere l'altra guancia, ricevendone un affetto smisurato e trattenuto. Venerandolo e imitandolo.
Perchè il Rino Zena è tante cose insieme. È un padre amoroso, un lavoratore disoccupato, un adulto che educa il figlio alla violenza perché solo la forza conta in un mondo in cui i "negri" ci rubano il lavoro e i "ricchi" ne approfittano perché gli costano meno.

Il violento e arrabbiato disoccupato, pochi contatti col mondo esterno, coltiva l'impari amicizia con il povero sbandato fuori di testa Quattro Formaggi (Elio Germano), reso demente da un incidente sul lavoro, stracotto della pornostar Morena, ammirata nelle solitarie notti davanti alla tv e identificata, dalla sua mente malata, nella graziosa liceale Fabiana (Angelica Leo): povera ragazza, la somiglianza, in una lunga notte terribile, piena di pioggia e di sangue, le costerà cara.

E cambierà tutto per tutti e tre.

Cupo e angoscioso dramma, ambientato nella (piovosissima) provincia friulana, che Gabriele Salvatores ha tratto dal romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti.
Una storia crudele di solitudine e emarginazione, che all'improvviso si tinge di giallo, dove spicca il vigoroso rapporto d'amore, raramente così ben rappresentato, tra padre e figlio, senza mamme e grembi materni in senso stretto, deformato dalla presenza di un terzo incomodo, gli esemplari Filippo Timi e Alvaro Caleca.

È bella, perché ancora bagnata di ambiguità, la prima parte, Cristiano che esce a uccidere il cane, padre e figlio che giocano come un cucciolo col capobranco, o fanno allegramente il tirassegno intorno al povero Quattro Formaggi. E anche la casa del demente, che tra film porno, braccia finte applicate al televisore e una specie di assurdo presepe profano, si è costruito una "second life" su misura, ci parla di un mondo diverso, complesso, mutevole, vivo e simbolico insieme.

Unica pecca: cade nell'impressione di maniera nel ritratto dei personaggi maneschi e parafascisti e nella struttura socio-culturale.