MIO FRATELLO E' FIGLIO UNICO

Latina, 1962. In quegli anni nell'Italia proletaria di provincia la vita non era facile. Le famiglie dovevano far crescere i figli con quello che avevano, dando loro una buona educazione.
Mentre si muove tra le architetture razionaliste dell'ex Littoria e di Sabaudia (città tirate su dal nulla dal fascismo nda) si sente un pesce fuor d’acqua, soprattutto in famiglia, il terzogenito Accio, cresciuto in seminario, appassionato di latino, che si iscrive, come atto di ribellione al conformismo imperante, al Movimento Sociale, istigato dal venditore ambulante di lenzuola Mario (Luca Zingaretti).

«Vedi la torre comunale? Fu costruita in 235 giorni».

Partecipa ad azioni violente, a cortei con le catene e il saluto romano. Fuori dagli schemi del fascino a buon mercato dei tempi della contestazione.

I cattolicissimi (immigrati veneti molto devoti) papà (Massimo Popolizio) e mamma (Angela Finocchiaro) stravedono per gli altri due figli, il più bello dei fratelli, l'operaio sinistrorso e attivista sindacale Malarico (Riccardo Scamarcio), benvoluto, adorato dalle donne, molto popolare, che lavora col padre in fabbrica, e l’aspirante concertista Violetta.

Passano gli anni, il fascista in erba cresce (Elio Germano) e s’innamora della graziosa Francesca (Diane Fleri), la fidanzatina francese del fratello, anche se, quando Mario è arrestato, s’imbarca sulla nave scuola di sua moglie Bella (Anna Bonaiuto).

Forse ho sbagliato tutto. Ma io non mollo.

Acuta, vivace, veloce, ben scritta, ben costruita e ben recitata, tratta dal romanzo "Il fasciocomunista" di Angelo Pennacchi, commedia (anche se scavalca il confine del dramma, con morti e feriti) dolceamara diretta da Daniele Lucchetti, troppo sbrigativa nel finale, che con marcata inflessione laziale ripercorre quindici anni di travagliata storia italiana, mescolando conflitto generazionale, lotta di classe, ardori sentimentali, guerra civile, tenendo in primo piano il complesso rapporto tra nero e rosso, tra due uomini/fratelli/amici per la pelle che condividevano gioie e miserie.
Luchetti da un impronta personale al suo cinema, tocca la politica, la affronta, ma ciò che gli importa veramente sono le persone, perché sono loro che fanno il mondo. Ieri, oggi, domani. Quei volti, quindi, che lui approccia nei dettagli, a volte con la camera a mano, per dare ai protagonisti quel qualcosa di incerto, sono l'anima dei suoi film.

Non c’è gara tra l’espressivo (e superlativo) Elio Germano, nella rappresentazione di un personaggio carico di rabbia commovente e impotente ingenuità, e il monocorde Riccardo Scamarcio, che ha il solo pregio di bucare lo schermo con i suoi occhi verdi. Troppo poco.
Intorno a loro si muovono la Finocchiaro, magnifica madre, e Zingaretti, fedelissimo al Duce, perfetti comprimari di un dramma estremamente personale.

La crescita di un uomo, forse non era mai stata così profonda nel cinema italiano attuale e, se tralasciamo benevolmente gli ultimi venti minuti, troppo frettolosi, scopriamo come la fatica e il dolore di vivere di personaggi umani-troppo-umani malmenati dalla microstoria quotidiana può essere raccontata con la forza delle immagini e delle parole.

Assolutamente consigliato.