LE INVASIONI BARBARICHE

Voi direte che me la sono cercata, ed è vero, ma vi giuro che ero in buona fede. Capita.

Capita che mentre ti trovi nella tua camera da pranzo annegata in una quieta atmosfera messicana (fatemi fare un po’ di colore, diamine!) ti fidi del consiglio di un amico.

O presunto tale. O sedicente tale.

Certamente non bisogna giudicare gli uomini dalle amicizie. Guardate Giuda, per dire, frequentava tutte persone irreprensibili. Eppure.

E lungi da me l’idea di buttare l’amico con l’acqua sporca.

No! No! Noi ci assumiamo le nostre responsabilità e vi parleremo di questo film da red carpet (presentato al Festival di Cannes nel 2003).

Certo trovarsi (non inganni il titolo) davanti ad un film che affronta la vita (e soprattutto la morte) dal punto di vista della sub-specie umana che occupa, nella mia scala del disprezzo, il podio, ad un incollatura dai pedofili, mi crea qualche turbamento.
Radical-chic.

Montreal. Un cinquantenne radical-chic, Remy (Remy Girard), docente universitario di Storia, borioso e libertino quanto inutile nella sua esistenza alto-borghese, viene colto da improvvisa malattia (cancro) e viene ricoverato in un ospedale affollato e popolare della città. Senza speranza.

Al capezzale viene convocato il figlio, pregato dalla madre, Sebastien (Stéphane Rousseau), perfetto self-made man, pratico fino al cinismo (chiaramente e senza remore, il mio personaggio preferito). E molto ricco.

Che il padre vede come “il principe” dei barbari.

Si, perché il messaggio, scaturito da un frammento video, con il sottofondo del solito esperto “da salotto”, dell’attacco alle Twin Towers (da cui il titolo del film) è: “i terroristi attaccano l’Occidente (portandoci la guerra in casa) ma i veri barbari siamo noi.” “Così come le invasioni barbariche segnarono inevitabilmente il declino dell’impero romano, allo stesso modo i “barbari” di oggi travestiti da uomini d’affari in doppio petto, consacrati ai soldi e alla tecnologia, che conducono una vita frenetica ed omologata, stanno minando quella civiltà occidentale che è cominciata con Dante.”

Il solito messaggio (nella prima parte) tafazzista di una certa visione del mondo figlia della beat generation. Quella parte di umanità che non è mai cresciuta e che morirà parlandosi addosso e scansando le responsabilità. E accollando all’Occidente solo doveri. E mi fermo qui che mi potrebbero spuntare sulle labbra parole da caporale in libera uscita.
Sebastien si troverà ad affrontare subito il sindacato, che domina, a quanto si vede, anche negli ospedali canadesi. Come un Policlinico qualsiasi. Stessa capacità dis-organizzativa. Come è piccolo il mondo.
E si adopererà per fargli trascorrere gli ultimi giorni felici. Ricorrendo anche all’eroina, anche grazie all'aiuto "tecnico" della drogata cronica Nathalie (Marie-Josée Croze). Che servirà per l’eutanasia finale (alla quale, in linea di principio e con i dovuti distinguo, non siamo contrari).
Chiaramente tra gli amici non mancano (come potrebbero?) la coppia gay, ricca e di successo (avete mai visto un gay povero? Sembra che non ne producano negli studi cinematografici).
Quindi, ricapitolando vecchi tromboni radical-chic, coppie omosessuali, la droga e l’eutanasia. Manca qualcosa? Forse un cicinin di “cultura” rom. Vedremo al prossimo capitolo. Come si dice in questi casi “la speranza è l’ultima a morire”.
Gradevole nei dialoghi e nelle citazioni (colte. Anche troppo. Platone e Seneca a iosa, Arcipelago gulag, Primo Levi ect, ect), nella scelta dei colori e delle atmosfere, (le immagini della tranquillità del lago) ma irritante in questo porsi ad esemplificazione di una società, quella occidentale, vista come decadente, avendo come unico filtro e pietra di paragone i discorsi di quattro vecchi tromboni che dissertano di filosofia mentre bevono un ottimo vino italiano . E vorrei vedere.
Rappresentare la decadenza di una società facendoci vedere le storture provocate da una certa , come dicono, con sussiego, quelli che parlano bene, “cultura” è come scegliere di legare il portiere al palo e poi criticare perché si è persa la partita. E farci pure la morale. E magari vincere un premio a Cannes.
Per fortuna un po’ meno ipocrita è la condanna di tutti gli “ismi”, visto che sembra chiara l’inclusione del totalitarismo principe del ‘900 (indovinate quale. Dai… un piccolo sforzo…. Vi aiuto: è rosso sangue).
Il moralismo, che sembra assente nelle problematiche suddette, viene riservato solo all’unico personaggio che veramente si staglia sulle chiacchiere in libertà e concretezza zero e fa quello che un figlio farebbe per il suo genitore: quanto è possibile in relazione alle sue capacità economiche, accantonando il rancore, le incomprensioni e l’assenza di chi ti ha messo al mondo.

L’unica figura che abbia una solida “morale”. Se questo è un “barbaro”, io ho ancora speranze per il nostro mondo.