NEL NOME DEL PADRE

Guilford (Inghilterra), 1974. Non si trovano i colpevoli dell’attentato dell’IRA in un pub alla periferia di Londra. Alla polizia, completamente in bambola, non par vero di sbattere dentro  il giovane ladruncolo irlandese Gerry Conlon (Dayniel Day Lewis), che il ruvidissimo padre (Pete Postlethwaite) ha spedito fuori di casa solo per toglierlo dai guai.


L’incorreggibile borsaiolo, pescato in flagranza di reato dagli zelanti agenti, finisce nella stessa cella con il padre sotto lo schiacciante peso di un’ingiusta accusa di strage per conto dell’IRA.


Invano la battagliera avvocatessa Pierce (Emma Thompson) tenta di strappare i poveretti ingiustamente accusati dalla prigione. Quattro proletari irlandesi (e i loro parenti ed amici, accusati di reati minori) come agnelli sacrificali.
Ci vorrano quindici anni per ristabilire la verità.

Ispirato a una storia vera e tratto dal libro autobiografico "Proved Innocence" (Il prezzo dell’innocenza) di Gerry Conlon. 
Non servì ristabilire la verità al povero protagonista Giuseppe Conlon, che si spense mestamente in carcere nel 1980.


Dalla storia vera di un clamoroso errore giudiziario, frutto di un complotto poliziesco,  viene fuori un vigoroso e coinvolgente dramma , un  film civile incline al sentimentalismo e alla retorica manichea.
Il regista, l’irlandese Jim Sheridan, ha buon gioco nel suscitare lo sdegno dello spettatore.
Spettatore preso soprattutto dal racconto, storia travagliata annegata nella storia tragica,  del rapporto tra padre e figlio, rinchiusi nella stessa cella.
I bei chiaroscuri psicologici illuminano l’eccellente caratterista Pete Postlethwaite, fiero recluso che insegna al più irruento figlio, l’altrettanto bravo Daniel Day Lewis, a sopportare con dignità l’ingiustizia.


Non mancano i passaggi declamatori o didattici né gli stereotipi della vita carceraria, ma nemmeno le pagine forti, come l’avvio a Belfast, sostenuto nel suo ritmo forsennato dalla musica degli U2-Friday.